Shoah. Musica dal naufragio dell'umanità...

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Shoah. Musica dal naufragio dell'umanità...

Cittadellinfanzia
Pubblicato da Dott. Domenico Andriani in MUSICA E TEATRO · 31 Gennaio 2017
Tags: memoriashoahauschwitz
Scrivo queste mie poche righe sull'onda della commozione, dell'orrore e della vergogna che sempre provo, in quanto parte del genere umano, nel ricordare il genocidio degli ebrei e i crimini atroci della dittatura nazifascista. Commozione, orrore e vergogna che inevitabilmente si acuiscono in occasione della “Giornata della Memoria”. Con la forza di un imperativo categorico kantiano quella data, il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dei sovietici, ci scuote dal torpore dell'indifferenza e ci obbliga a ricordare il capitolo più nero della storia moderna, a interrogarci sulle cause del male, sui meccanismi del dominio e della violenza, a riflettere su quanto l'uomo sia capace di odiare, umiliare, violentare e uccidere i propri simili. La domanda che sorge è sempre, immancabilmente la stessa: come è potuto accadere che in una manciata d'anni, dal 1933 al 1945, sei milioni di ebrei d'Europa, e altre centinaia di migliaia di individui tra zingari di etnia Sinti e Rom, omosessuali, Testimoni di Geova, inabili fisici e mentali, dissidenti politici, prigionieri di guerra, delinquenti comuni e “asociali” (vagabondi, mendicanti, prostitute, venditori ambulanti), siano stati sterminati, annientati, cancellati dal cuore dell'Europa? Poi pensiamo agli orrori presenti, alla violenza e all'intolleranza dilaganti, alle guerre che mietono vittime innocenti, privando di un futuro tanti e tanti bambini, ai muri che vengono innalzati di fronte a quanti fuggono da miseria e morte alla ricerca di un avvenire, e capiamo che quel fatto storico non è poi tanto eccezionale e irripetibile come appare. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo» ha scritto Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Coltivando la memoria della Shoah, studiandola, noi riflettiamo su noi stessi e sul presente nella misura in cui ci confrontiamo con il lato oscuro della natura umana, e così facendo acquistiamo consapevolezza del rischio che sempre corriamo quando dimentichiamo di essere uomini nel senso più pieno e più alto del termine. Perché il Giorno della Memoria «non diventi un vuoto e ripetitivo rituale non abbiamo che una strada, quella della conoscenza e della comprensione» (F. R. Recchia Luciani, La Shoah spiegata ai ragazzi, Il melangolo, 2014).   

Per una singolare coincidenza il 27 gennaio è anche il giorno in cui è venuto al mondo Wolfgang Amadeus Mozart (1791) e si è spento Giuseppe Verdi (1901). Mozart e Verdi: forse nessun compositore ha saputo indagare l'animo umano, le sue contraddizioni e i suoi anfratti bui, in modo altrettanto lucido e carico di pietà, indicandoci la via di umanità consapevole di se stessa e solidale.

Eppure, una tragica ironia ha voluto che la loro musica, assieme a quella di Beethoven, Schubert, Mendelssohn, Liszt, Wagner, Offenbach, Lehár, Puccini e molti altri, si mescolasse alla violenza, alla disperazione e alla morte nei luoghi di segregazione e annientamento nazisti. Nel ghetto di Varsavia, a Buchenwald, a Mauthausen, a Dachau, a Birkenau, a Treblinka, persino ad Auschwitz, la musica scandiva le giornate delle vittime e dei carnefici: musica in prevalenza classica, ma anche jazz, leggera e da ballo. La diffondevano gli altoparlanti per dare la sveglia o avviare ai lavori forzati, ma soprattutto la eseguivano gli stessi deportati in piccoli ensemble da camera, non di rado in vere e proprie formazioni orchestrali e corali ispirate alle “cappelle musicali” delle grandi corti del passato (si chiamavano infatti Lagerkapellen). Nei campi di concentramento sul territorio del Reich e in Polonia l'attività concertistica era piuttosto intensa; serviva a offrire svago e distrazione agli ufficiali delle SS, ad accogliere qualche “pezzo grosso” (a Mauthausen nel gennaio del '45 venne eseguito addirittura il Lohengrin di Wagner davanti ad Heinrich Himmler), ma non soltanto: spesso un macabro cerimoniale imponeva che i deportati suonassero mentre i loro compagni, amici e parenti venivano condotti nelle camere a gas. E poi c'era Terezín. Situata a pochi chilometri da Praga, Theresienstadt, così chiamata in tedesco (in omaggio all'imperatrice Maria Teresa d'Austria), era sorta alla fine del '700 come città-fortezza. Nel 1941 la Gestapo la trasformò in un ghetto speciale, destinato ad accogliere i Prominenten, gli ebrei importanti: vi vennero internati, tra gli altri, decorati della prima guerra mondiale, alti funzionari e personaggi politici della Germania pre-hitleriana, artisti e intellettuali.

Con sadica ipocrisia si intendeva preservarli dalle deportazioni di massa: ma il loro destino era comunque segnato.

Il fatto che vi fossero concentrati in numero così elevato persone di cultura, intellettuali, artisti e musicisti fece sì che in breve tempo Terezín divenisse un'oasi di vivacità artistica, un “paradiso” in confronto agli altri campi. In un primo tempo i concerti con strumenti di fortuna, gli spettacoli teatrali e le attività culturali che vi si svolgevano clandestinamente furono repressi; poi i nazisti, primo fra tutti il famigerato Adolf Eichmann, pensarono che il fervore artistico del ghetto poteva essere sfruttato a fini propagandistici, per ingannare il resto del mondo sulle condizioni di vita e sul destino degli ebrei deportati. E così quelle attività non furono solo consentite ma addirittura incoraggiate, anzi istituzionalizzate.


Quando nel '44 i nazisti dovettero cedere alle richieste della Croce Rossa Internazionale, che insisteva per visitare un campo di concentramento di ebrei, la scelta non poteva che cadere su Terezín: tirato a lucido e abbellito, il ghetto fece da scenografia per una colossale finzione. E gli ispettori, capeggiati dall'antisemita Maurice Rossel, se ne tornarono a casa soddisfatti. Ma la mistificazione propagandistica non si fermò qui: i nazisti vollero realizzare un film che documentasse le condizioni a dir poco idilliache degli ebrei che vivevano a Theresienstadt, Der Führer schenkt den Juden eine Stadt (Il Führer dona una città agli ebrei). Tutti gli internati dovettero contribuire, loro malgrado, alla messinscena; il noto attore e regista ebreo Kurt Gerron fu incaricato della regìa. In realtà la vita a Terezín era durissima: oltre 30.000 persone vi morirono per gli stenti, le malattie, le violenze degli aguzzini. Dopo le riprese del film sia Gerron che i suoi “attori” furono trasferiti ad Auschwitz, e lì uccisi nelle camere a gas. (Qualche frammento del film è visionabile su YouTube, per esempio ) .

A Terezín si trovava un numero impressionante di musicisti; tra di essi almeno cinque compositori di primo piano: Pavel Haas, Hans Kràsa, Viktor Ullmann, Gideon Klein e Siegmund Schul. Non ne sopravvivrà nessuno.

Il film di propaganda diretto da Gerron ci consente di ascoltare una breve ma incisiva composizione di Haas, lo Studio per orchestra d'archi; alcuni piccoli internati cantano Brundibár, l'operina per bambini composta da Kràsa prima del suo arresto e messa in scena per la prima volta proprio a Theresienstadt. Terminate le riprese tutti i musicisti e i bambini coinvolti furono mandati a morire ad Auschwitz. Ho ascoltato di recente la struggente Ninna-nanna di Gideon Klein e non ho fatto a meno di pensare ai circa 15.000 bambini deportati a Terezín e annientati in gran parte nelle camere a gas. Ascoltatela anche voi e condividetela con i vostri figli .
Se per i nazisti il fermento musicale di Theresienstadt rappresentava un efficace strumento di propaganda, per gli internati del ghetto la composizione e l'esecuzione di musica – un esigenza quasi vitale, come ben sanno gli “addetti ai lavori” – dava voce alla speranza e alla voglia di vivere, diveniva strumento di resistenza e di ribellione, le uniche possibili nell'inferno di una prigionia senza futuro. Brundibár, per esempio, storia di due fratellini che riescono a sconfiggere un cattivo tiranno, allude chiaramente alla situazione reale in cui fu messa in scena; il Requiem di Verdi, la cui esecuzione segnò il culmine dell'attività musicale a Terezín, diventava il grido di una umanità che non si rassegna al proprio destino ma gli resiste fino all'ultimo, in un estremo, disperato attaccamento alla vita e al mondo, un'umanità che sente avvicinarsi l'ora in cui i «maledicti» (leggi: i carnefici) verranno dannati per i loro crimini, e che infine, penitente, invoca la libertà eterna («libera me»), la stessa negata ai prigionieri. D'altronde, la pervicacia con cui quei musicisti seppero portare avanti la propria ricerca compositiva nonostante le terribili condizioni di vita del ghetto – o, forse, proprio i virtù di esse – è qualcosa di straordinario. Ha affermato Ullmann, autore del bellissimo Quartetto per archi n. 3 op. 46:

"Devo sottolineare… che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commisurato alla nostra voglia di vivere. Ed io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un’ordine al Caos, saranno d’accordo con me".

 
Musicologo   

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