“PERCHÉ CONCEDERSI IL DIRITTO DI FARSI DEL MALE?”

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“PERCHÉ CONCEDERSI IL DIRITTO DI FARSI DEL MALE?”

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“Scegliete la vita,
scegliete un lavoro,
scegliete una carriera,
scegliete una famiglia,
scegliete il futuro,
scegliete …
… la vita”.
(Irvine Welsh, Trainspotting)

 La prima ad aver affrontare il fenomeno della tossicodipendenza è stata  la medicina, in particolare la sua branca specialistica: la  psichiatria, che si occupa della cura e della riabilitazione dei  disturbi mentali, poiché si associò la figura del tossicodipendente a  quella del malato psichiatrico per il percorso da seguire, testimone il  libro: La doppia faccia della doppia diagnosi”, testo che riassume gli  studi effettuati a partire dalla fine degli anni 80 e l’inizio dei ’90,  dai quali emerge come la “Dual Diagnosis” sia strettamente connessa al  problema della tossicodipendenza, cioè come nella stessa persona conviva  un comportamento tossicomane assieme ad una sintomatologia  psichiatrica.
Solo in seguito, ad occuparsi dello stesso furono le  scienze sociali quali la psicologia, la psicanalisi e la sociologia; tra  i vari studiosi che si sono dedicati alla problematica di rilievo  sociale ne citiamo alcuni: Luigi Cancrini, noto psichiatra e  psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, il quale nel: “Il vaso di  Pandora”. Manuale di psichiatria e psicopatologia”, ha approfondito il  tema della tossicodipendenza giungendo ad una netta classificazione in  quattro categorie degli assuntori di sostanze psicotrope, basata sul  coinvolgimento dell’individuo; ricordiamo David Ausubel  con la sua  teoria della Personalità predisposta all’abuso ed alla dipendenza” ed  il sociologo statunitense Robert C. Merton, che attribuisce un  comportamento deviante,  nascente da un graduale distacco dagli schemi  sociali abituali, a chi fa uso di droga.
 
Quando parliamo di  droga parliamo del diritto di farsi del male”, sebbene sia opposto al  principio stesso di vita, l’individualismo più estremo lo giustifica  poiché vede l’individuo come il primo responsabile della propria vita,  libero di scegliere cosa fare della stessa, quindi anche decidere di  autodistruggersi; contrariamente nell’ottica di uno stato sociale,  ognuno, nessuno escluso, è parte integrante dello stato e, quindi, come  ben ha definito tempo fa, John Donne: Nessuno uomo è un'isola in sé e  quello che succede a uno coinvolge anche altri”.

Dobbiamo  precisare che ci si avvicina alla droga leggera o pesante che sia,  soprattutto in età adolescenziale, periodo in cui si forma la  personalità e molti giovani, questo passaggio obbligatorio, lo vivono  non solo singolarmente ma in stretto rapporto con gli altri coetanei, da  questo nasce quel bisogno di essere accettati, di sentirsi parte di un  gruppo di amici anche omologandosi, assumendo spesso anche atteggiamenti  sbagliati; statisticamente è proprio tra coetanei che si fumano le  prime sigarette, che si trascorrono serate all’insegna dello svago nei  locali, tutto per non essere isolati dal gruppo.
Adolescenti  quindi, che nella maggior parte dei casi, si fanno coinvolgere da  coetanei che invece si ritrovano in un contesto familiare predisposto  alla presenza di droga.

Come apprendiamo dalla lettura di  quotidiani, dai telegiornali e da internet sono però numerosi anche i  casi di tossicodipendenza in nuclei familiari che apparentemente  sembrano non avere questa predisposizione alla droga; come spiegare  questo controsenso? Spesso ci sono dinamiche familiari che possono  provocare disagio ad uno o più componenti, ad esempio nel confronto con  un adulto autorevole, o in un contesto in cui non vige serenità nei  rapporti, sono potenziali cause che spingono l’adolescente a ricorrere  alla sostanza, al fine di compensare queste problematiche; questo  dimostra come dipende sostanzialmente dal modo di affrontare a vita  perché ci sono soggetti che pur avendo vissuto in certi contesti, sono  riusciti a non farsi coinvolgere dal mondo della droga.

Dott.ssa Patrizia di Lernia
Assistente Sociale - Operatrice di Terapia e attività assistita dagli animali

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